Spesso si ritiene che la conoscenza della realtà, sia un compito che compete
ad alcuni saperi. O, meglio, che solo alcuni di essi siano in grado
di comprendere la complessità della realtà. Eppure, la fatica della ricerca
lascia emergere la banalità di risposte a buon mercato, se non proprio l’illusione
di poter leggere il mistero delle cose attraverso un unico approccio
conoscitivo. In altre parole, si ritiene che il conflitto delle interpretazioni
circa la complessità nella quale viviamo sia un atteggiamento che
tende a mettere in parentesi conoscenze certe e indubitabili. La storia della
ricerca, però, racconta ben altro e invita a non essere semplicistici nel
lungo cammino della conoscenza.
È quanto si apprende dalla lunga e articolata vicenda del rapporto tra
teologia, religione e scienza. Rapporto considerato, da alcuni, privo di valore,
da altri non importante per un’autentica conoscenza della realtà. Anzi,
il sospetto che la conoscenza teologica possa essere di ostacolo è più
che una semplice ipotesi. Per un motivo elementare, come scrive John Polkinghorne:
«Secondo un’immagine assai popolare l’impresa scientifica
disporrebbe di un metodo infallibile e, di conseguenza, i suoi risultati non
sarebbero altro che l’inesorabile conquista della verità. Il controllo sperimentale
verifica o falsifica le proposte avanzate dalla teoria. I problemi
vengono risolti così per sempre e con unanime soddisfazione; leggi che
mai saranno infrante sono sotto gli occhi di tutti. Ma scopriremo ben presto
che, in realtà, le cose vanno in maniera molto più sottile»1.