La notizia della liberazione di Ghilad Shalit, il militare israeliano tenuto prigioniero
da Hamas sin dal 2006, che è avvenuta sulla base di un accordo
tra Israele e gli islamico-radicali palestinesi, ci giunge proprio ora, in cui ci
accingiamo a scrivere l’Editoriale. Si tratta di una notizia che può venire letta
e interpretata come un segno di speranza per questa regione martoriata
da un interminabile conflitto. L’intera comunità mondiale, infatti, desidera
la pace per i popoli Palestinese ed Israeliano; e ciò non solo per la stabilità
della regione, ma anche per bilanciare gli equilibri politici internazionali.
La questione, tuttavia, è abbastanza complessa. Diversi motivi problematici
vanno ad intrecciarsi lungo il percorso difficile, che dovrebbe portare ad
un regime di sufficiente convivenza tra questi due popoli; non ultimo il motivo
religioso, che in questi luoghi incrocia ebrei, cristiani e musulmani. In
tal senso, si auspica che proprio le religioni possano offrire un contributo significativo
alla stagnante e difficile soluzione del problema mediorientale –
le iniziative in atto non sono poche. Questo, ad esempio, è quanto auspicava
il Sinodo per il Medio Oriente, tenutosi in Vaticano dal 10 al 24 ottobre
dello scorso anno, il quale metteva a fuoco il tema della comunione, della
testimonianza e del dialogo tra le religioni: «La moltitudine di coloro che
erano diventati credenti aveva un cuore solo ed un’anima sola» (At 3, 42).